Può un socio di società di capitali essere escluso dalla partecipazione agli utili e alle perdite?

Sono nulle le clausole con il quale il socio venga escluso dalla partecipazione agli utili e/o esentato dalle perdite della società.

Si tratta di un principio generale che, ancorché testualmente previsto dall’art. 2265 c.c. con riferimento alla società semplice, trova applicazione per ogni tipo di società (società di persone e società di capitali).

La ratio della norma risiede nella imprescindibilità della suddivisione tra i soci dei risultati economici dell’impresa. In pratica, la finalità è quella di rendere tutti i membri del gruppo partecipi del rischio d’impresa e garantire un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri. L’esclusione dagli utili potrebbe indurre il socio a disinteressarsi della gestione. Per converso, l’esclusione dalle perdite potrebbe far venire meno nel socio lo stimolo ad astenersi dal compiere operazioni aleatorie e a prodigarsi, invece, per il favorevole esito dell’impresa.

Quando le clausole che dispongono l’esclusione del socio dagli utili e/o dalle perdite sono valide?

Il divieto scatta solo qualora l’esclusione sia totale e costante nel tempo. Esula pertanto dal divieto una clausola che regoli la partecipazione alle perdite e agli utili in misura difforme rispetto alla percentuale di partecipazione del socio al capitale sociale dell’impresa. In questo senso, è stato affermato che non è soggetta al divieto di legge (e non è quindi nulla) la clausola che escluda un socio d’opera dalle perdite della società e ne attribuisca gli utili in misura ridotta e non proporzionale, atteso che tale previsione è bilanciata dal suo esonero, appunto in quanto socio d’opera, dall’obbligo di sopperire al fabbisogno finanziario della società posto a carico dei soli soci di capitale in proporzione delle loro quote (Cass., 21 gennaio 2000, n. 642).

Il divieto ha ad oggetto le sole clausole statutarie della società oppure si estende anche a clausole inserite nei patti parasociali?

Il patto parasociale è esterno rispetto al contratto sociale (società). Il contratto sociale si manifesta con la stipula dell’atto costitutivo e lo statuto sociale (che dettano le regole di gestione della società). A differenza dell’atto costitutivo e dello statuto sociale che dettano diritti e doveri dei soci verso la società, vincolandone anche il loro comportamento, il patto parasociale (come si evince dal nome) si traduce in un accordo solo tra i soci, ha effetti meramente obbligatori tra i firmatari e non vincola la società, pur rappresentando anch’esso uno strumento attraverso cui viene perseguito il fine sociale.

Parte della giurisprudenza ritiene che anche la clausola di esclusione del socio dalla partecipazione agli utili e/o dalle perdite della società sarebbe nulla ancorché inserita non nell’atto costitutivo o nello statuto della società ma in un patto parasociale. Del resto, l’articolo 2265 c.c. non opera alcuna distinzione e ha portata è generale.

Il caso dell’opzione “put”

L’applicazione del divieto anche agli accordi parasociali, con i quali un socio attribuisca a un altro socio il diritto di cedere la sua partecipazione entro un certo termine, ad un prezzo predeterminato e/o comunque a condizioni che gli garantiscano, sostanzialmente, di “rientrare” dell’intero investimento, ha costituito oggetto di ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Un primo orientamento, seguito di sovente dalle Corti di merito, nega la validità di tali patti, poiché essi realizzerebbero, seppur indirettamente, il medesimo risultato vietato dall’art. 2265 del codice civile. In questo senso anche il Tribunale di Milano che ha avuto modo di sottolineare, in proposito, che “rientra invece nel divieto di legge la previsione di una opzione di vendita di una partecipazione sociale con corrispettivo predeterminato comprensivo, anche, degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio titolare dell’opzione di vendita in conto aumento di capitale” (T. Milano, 23 luglio 2020, n. 4628). Nella sostanza, una clausola contenuta in un contratto parasociale che attribuisca a un socio il diritto di vendere la propria partecipazione a un prezzo predeterminato – comprensivo, anche, degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio titolare dell’opzione di vendita in conto aumento di capitale – sarebbe nulla perché tesa ad assicurare al socio beneficiario dell’opzione il disinvestimento dalla società senza partecipazione alle perdite (anche a quelle che, medio tempore, abbiano intaccato il capitale sociale).

A tale orientamento se ne contrappone un altro, di segno opposto, recentemente ribadito da Cass. Sez. I^ Civile, Ordinanza 7 ottobre 2021 n. 27227 secondo cui, viceversa, qualora detta clausola sia contenuta esclusivamente in un accordo tra soci (non quindi nello statuto sociale o nell’atto costitutivo), la pattuizione sarebbe valida.

Secondo la Suprema Corte, la necessaria suddivisione dei risultati dell’impresa economica deve infatti essere tipicamente propria dell’intera compagine sociale e con rilievo reale verso l’ente collettivo: nessun riflesso reale sull’ente e sul suo funzionamento (e, quindi, nessuna deviazione dallo schema causale) può essere attribuita a un accordo che interviene solamente tra i soci che non abbia effetto verso la società, quale è tipicamente quello inserito in un patto parasociale. Nello stesso senso, ancora più di recente, T. Roma, 16 febbraio 2022.

Il divieto riguarda solo le società (tutti i tipi) ma non si estende al contratto di associazione in partecipazione

Il contratto di associazione in partecipazione è quello con il quale un soggetto partecipa all’esercizio di una impresa o di un affare dietro il conferimento di un apporto. L’apporto può avere natura patrimoniale o personale. L’associazione in partecipazione si distingue dal contratto di società perché l’associato rimane del tutto estraneo all’impresa dell’associante che rimane di esclusiva titolarità di questo ultimo. A fronte dell’apporto egli ha diritto solamente a una partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari per i quali è stato concluso il contratto.

Al contratto di associazione in partecipazione non si estende il divieto di esclusione agli utili di cui all’art. 2265 c.c. in quanto l’unica regola inderogabile è quella stabilita dall’articolo 2553 c.c. secondo cui le perdite poste a carico dell’associato non possono superare la misura del suo apporto. Nel contempo, le parti hanno la facoltà, nel contratto (di associazione in partecipazione), di stabilire la partecipazione dell’associato alle perdite in misura diversa da quella della partecipazione agli utili ovvero di escludere del tutto la partecipazione alle perdite (Cass., 1 gennaio 2008, n. 24376).